Latina, braccianti indiani drogati per lavorare nei campi: il dossier denuncia

Sostanze illegali usate dai braccianti indiani per alleviare dolore e fatica: la nuova increbile frontiera dello sfruttamento scoperta nelle campagne pontine. Ecco il dossier di ‘In Migrazione’ presentato oggi a Latina.

“…io uomo di carne no di ferro. Allora dopo sei/sette anni di vita così, che fare? No lavoro più? Io e amici prendiamo piccola sostanza per non sentire dolore. Prendiamo una o due volte quando pausa da lavoro. Poi andiamo a lavorare nei campi senza dolore…”.


È questa una delle tante testimonianze raccolte da In Migrazione durante il secondo monitoraggio sulle condizioni di lavoro dei migranti sikh residenti nella provincia di Latina.

indianoInaspettatamente è emerso che i braccianti impegnati nelle campagne vivono condizioni di lavoro talmente dure che sovente sono costretti a ricorrere all’uso di sostanze dopanti come rimedi antidolorifici auto-somministrati.

In Migrazione ha scelto così di focalizzare la sua attenzione a un fenomeno inedito dalle tinte fosche e altamente pericoloso. È l’indagine dal titolo “Doparsi per lavorare” che accende così i riflettori su un fenomeno che mina pesantemente questa comunità di migranti originari del Punjab indiano, che vivono e lavorano nelle campagne alle porte della Capitale.

bracciante-indianoLa comunità sikh, è bene ricordarlo, è la seconda più grande d’Italia (dopo quella di Novellara in provincia di Reggio Emilia) per dimensioni e rilevanza. Secondo le stime della CGIL la comunità arriva a contare ufficialmente circa 12.000 persone, sebbene sia immaginabile un numero complessivo intorno alle 30.000 presenze.

LAVORO NEI CAMPI – Uomini impegnati in agricoltura, piegati sui campi 12 ore al giorno come minimo, festivi inclusi, a una media di 4€ al giorno se riesci a prenderli. Non esistono domeniche né ferie e malattie: si guadagna (poco e male) quel che si lavora con qualsiasi tempo e in ogni stagione. Non c’è solo la raccolta di pomodori, zucchine e meloni, ma anche la semina e la concimazione che espone questi lavoratori all’inalazione di sostanze chimiche dannose per la salute.

Se non va bene poco male, c’è sempre chi è pronto a sostituirti, chi ha in quel misero guadagno l’unico reddito vitale per il sostentamento. È questo in poche parole il cul de sac in cui si ritrova la maggior parte dei lavoratori stranieri.

“Un sistema di sfruttamento pienamente rodato – dichiara Marco Omizzolo, responsabile scientifico di In Migrazione e curatore dell’indagine –, che spinge queste persone a trovare rimedi rischiosi non solo dal punto di vista legale, ma anche e soprattutto della salute. Una forma di doping vissuto con vergogna e praticato di nascosto perché contrario alla loro religione e cultura, oltre a essere severamente contrastato dalla propria comunità. Per questo è molto complicato riuscire a capire come recuperano la sostanza dopante e di cosa si tratti esattamente”.

IL MERCATO DEL DOPING – Quel che è certo però è che questo sia un mercato saldamente in mano a italiani senza scrupoli che si servono di indiani per la vendita al dettaglio come ci ha detto H. Singh: “Prendono da italiani che vendono loro e loro o danno a amici e prendono quando lavorano come thè. Capisci? Mettono in acqua calda e poi prendono. Si può anche mangiare, ma fa più male. Male a stomaco, a gola”. Recentemente, e cioè a gennaio di questo anno, alcune operazioni delle forze dell’ordine hanno portato all’arresto di alcuni sikh e a diversi sequestri di carichi di oppio accendendo i riflettori sulle possibili tratte degli stupefacenti.

ASPETTI SOCIALI – Naturalmente non mancano pesanti risvolti sociali. L’uso di sostanze è severamente condannato dal sikhismo (così come l’alcol, le sigarette, la carne) perciò si rischia di essere emarginati dalla comunità sprofondando in un pesante isolamento. Se in chi ne fa uso, prevale la vergogna di disattendere i dogmi, infatti, chi accetta di parlarne si divide tra la secca condanna e un sentimento di giustificazione per i connazionali che cercano comunque di rendere onore a un altro principio alla base della religione sikh: lavorare seriamente e con onestà. Non si tratta infatti di doparsi per divertirsi o provare un’esperienza inebriante, ma dell’unico modo per reggere un carico di lavoro disumano.

“Alcuni prendono perché fanno troppa fatica nei campi, io credo no sikh ortodossi. Se noi no sfruttati allora niente droga, perché cultura e religione sikh dice no droga, no fumo, no alcool, no carne. Capisci? Per sikh no giusto droga o fumo. Ma se devi lavorare e sei vecchio, o hai malattia, o se sei stanco e hai male a ossa, a schiena, dolore tanto, come fai?…”, ci chiede R. Singh.

Come detto, non sono pochi quelli che avvertono il pericolo dell’uso di queste sostanze e arrivano al plauso delle operazioni di polizia per non mettere al repentaglio la serenità dell’intera comunità: “Devono prendere italiano e indiano che compra droga e portare via in carcere a Roma. Così bene. Noi no vogliamo droga. Droga pericolosa e carabinieri devono prendere con manette e portare via”, è la secca condanna di B. Singh.

REAGIRE UNA PRIORITÀ – In un quadro generale dalle molte zone d’ombra emerge prepotentemente la necessità dell’aumento dei controlli sulle condizioni di lavoro.

“Non solo per tutelare i lavoratori sikh, – chiarisce Simone Andreotti, presidente di In Migrazione – ma anche per sostenere quelle aziende virtuose che subiscono la concorrenza sleale di chi poggia i propri affari sullo sfruttamento sistematico dei lavoratori. Questo sarebbe un primo grande passo obbligatorio ma non il solo. – aggiunge Andreotti – La comunità sikh, infatti, paga il pesante scotto di un isolamento dovuto anche alla mancanza di servizi che ne sostengano l’inclusione nella nostra società. Servizi per l’apprendimento della lingua italiana, la conoscenza del sistema sanitario, anagrafico e sociale rappresentano ancora un miraggio”.

indiani webSecondo In Migrazione infatti, la provincia di Latina potrebbe candidarsi a essere un laboratorio virtuoso di inclusione sociale, trasformando i suoi bellissimi territori da aree di sfruttamento ad aree di diritti e dignità sociale. “Il contrasto all’illegalità e allo sfruttamento del lavoro – conclude il presidente di In Migrazione – deve andare di pari passo con una strategia unitaria e coordianta di tutte le istituzione e dei tanti attori sociali e produttivi coinvolti, per garantire servizi territoriali per l’inclusione sociale, agricoltura che si basi sulla qualità dei prodotti unita al rispetto dei diritti umani e lotta alle eco-mafie”.