Dio è morto (quinta puntata)

Alessia buttò giù l’ultimo sorso della quarta Pedavena. Non riuscendo a nascondere un certo sorrisetto di soddisfazione. Le piaceva proprio rompere il cazzo al prossimo. Se gli sbirri l’avessero fermata – quella notte – avrebbe avuto ben poco da sorridere. Avrebbe potuto tranquillamente dire addio al falso della sua patente. Salvo farsene immediatamente fabbricare un’altra nella capitale delle contraffazioni. Scusate la mia dimenticanza. Qualche mese prima che diventasse maggiorenne, due solerti agenti s’erano prodigati d’inserirla nella lista delle aventi diritto alla millequattrocentoventitre del perduto anno millenovecentocinquantasei.

Ronnie James Dio in abito di scena
Ronnie James Dio in abito di scena

Pare che stesse combinando qualcuno dei suoi soliti casini e la recidività non aveva certo giocato in suo favore. Penso siate a conoscenza di quello che comporta. Prendere per culo il povero Biancospino era diventata la sua missione.


Vincenzo Degli Esposti – poeticamente ribattezzato il Biancospino – aveva passato gran parte del suo già squallido vissuto tra le mura silenziose degli ospedali psichiatrici. O centri di igiene mentale, chiamateli un po’ come vi pare. La maggior parte dei suoi quarantadue anni li aveva vissuti insieme con la madre, donna fin troppo attaccata alle panacee della religione. Da quando suo marito l’aveva abbandonata, era stata solo in grado di far ricadere la colpa dei suoi peccati su quel figlio disgraziato. Reo di somigliargli così tanto – Enzo – aveva vissuto la condizione d’incapace con la convinzione di esserlo davvero, cedendo volontariamente alla depressione. Quella santa donna di sua madre, prima di cominciare a imbottirlo di farmaci anti-psicosi, pensò bene di portarlo in tour alla volta di tutte le dannate cattedrali possibili e immaginabili, affidandosi – nell’ordine – direttamente a padre pio, karol wojtyla, la madonna della civita, santa maria della pietà, la vergine nera di częstochowa, san camillo de lellis, e Fraccazzo da Velletri. Con quali conseguenze? Delle più nefaste. Enzo sviluppò una sorta di ascetismo indotto, che a lungo andare l’avrebbe portato all’autocompiacimento, intramezzato da pericolose discese nel baratro della più pura delle commiserazioni per quel suo appartenere a decine di non ben distinti mondi. Cominciò a cercare d’afferrare l’impalpabile. Riuscite a immaginarvela una situazione del genere? Avere la convinzione di essere in grado di volare, ma non poter ammirare riflesse nello specchio le proprie ali. Vi viene da ridere, bastardi? Non c’è proprio un accidenti da ridere, ve l’assicuro. A un certo punto Enzo risultò così imbottito di psicofarmaci da rendere necessaria una disintossicazione. Manco a dirlo sua madre pensò bene di chiamare al suo capezzale due maledetti esorcisti, che finirono col rovinarlo per sempre. La musica a un certo punto gli venne in aiuto. Da autodidatta riuscì a studiare alla perfezione il pianoforte e la chitarra, non disdegnando delle nient’affatto equivoche capatine verso l’emisfero degli strumenti a fiato, dei quali – però – non approfondì mai le varie tecniche. E mentre la madre continuava a pressarlo dal punto di vista della preghiera e del pentimento, Enzo cominciò a mischiare agli psicofarmaci, amfetamine varie e alcool. La miscela finì per rovinargli ulteriormente le già provate cellule cerebrali. In una delle tante sedute attorno al tavolo con gli strizzacervelli, il povero Enzo diede fuori di matto, provocando una buona sorta di pandemonio. Munitosi di bisturi – col quale dapprima si preoccupò di minacciare l’intera equipe – cominciò a tirarsi fuori dalla carne il segno della sua vera appartenenza. Le guardie – accorse grazie alla pronta chiamata di uno degli inservienti – riuscirono a fermarlo giusto in tempo, prima che si dissanguasse. L’affascinante volatile che s’era tatuato sul petto sembrava essere sbucato fuori direttamente da uno degli Inferni di cui Enzo aveva più volte descritto i confini. Ci vollero tre anni prima che quei dannati si decidessero ad allentare le briglie con le quali conducevano Enzo nelle direzioni che più loro garbavano. Gli fu assegnato una sorta di sussidio – o pensione d’invalidità, che dir si voglia – con la quale avrebbe potuto finalmente cercare di condurre una vita normale, lontano dalla gabbia di matti – la casa materna – che di qualche maniera l’aveva portato a passeggio sul pericoloso ciglio del baratro del suicidio. Sei mesi più tardi la sua vita fu nuovamente sconvolta dalle fondamenta. La madre fu trovata cadavere nella stessa abitazione che fino a qualche tempo prima aveva ospitato Enzo e le sue idiosincrasie. Quella che anche i medici s’erano decisi – dopo fin troppo tempo – a definire una prigione. La stessa grazie alla quale l’io di Enzo era stato sfaldato irrimediabilmente. Uno o più sconosciuti s’erano introdotti in casa nottetempo. In principio s’era pensato a una rapina finita male. In seguito gli inquirenti furono costretti ad assegnare alla vicenda la giusta denominazione. Efferato omicidio a sfondo satanico, preceduto da violenza carnale.

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