Mariachiara Moscoloni – Aibofobia (I Sognatori casa editrice, Lecce, 2016, pp. 170)

Il primo romanzo di Mariachiara Moscoloni, a una prima e sommaria occhiata, appare come una sorta di labirinto di carne, in grado di trascinare all’interno delle proprie spire le migliori intenzioni del lettore, ovverossia quelle di non rimanere invischiato nella fitta ragnatela d’informazioni che – volutamente – sono celate fra i toni colloquiali e le interessanti curiosità che di capitolo in capitolo si snocciolano come ciliegie irrorate a tempo debito con la diossina!

La copertina di Aibofobia
La copertina di Aibofobia

L’autrice ha un’ottima padronanza della lingua italiana (cosa abbastanza rara alle nostre latitudini, oggigiorno), ma non le interessa fare sfoggio di termini improponibili ai pur attenti e affamati consumatori di carta stampata, e fa – di conseguenza – della semplicità un cavallo di battaglia, a mia modesto parere, più che vincente. Pur vero che in alcuni punti “Aibofobia” riporta alla memoria il Dan Brown del Codice, ma è altrettanto attendibile la buona fede della Moscoloni, quando in maniera molto simpatica lo fa addirittura nominare dai protagonisti della sua opera. Veramente interessante l’idea d’imbastire un romanzo sull’avversione per i palindromi (le parole che possono leggersi in entrambi i sensi) e altrettanto singolare il fatto che una laureata in legge si districhi a meraviglia tra situazioni creative a metà strada tra la pura fantasia e un’irriverente realtà da “cronaca rossa”… Il tema delle gemelle, poi, credo risulti vieppiù intrigante, grazie all’intreccio che l’autrice ha imbastito a perfezione nella perfetta logica di un serial all’americana (girato però nella provincia nostrana), che strizza l’occhio più all’introspezione che alla regola del mostrare a tutti i costi… In alcuni punti (ma forse la mia è maniacalità nuda e cruda) mi è sembrato addirittura di scorgervi una sorta di tributo all’Argento dei bei tempi, ma con tutta probabilità è solo un riverbero perduto in uno specchio che fatica a esalare l’ultimo respiro…


Grossa forza del libello sono le descrizioni degli ambienti circostanti, delle situazioni vissute in prima persona o anche di riflesso dai vari personaggi, dei profili psicologici descritti con minuzia e parsimonia, che collocano la narrazione in bilico tra l’esposizione più pura dei fatti e la parte irrazionale che vorrebbe convertire il tutto in poesia… In ultima analisi – sempre a mio modesto parere, del tutto sindacabile e in ogni caso avulso da canoni di esposizione critica – consiglierei vivamente la lettura di “Aibofobia”, specialmente se si vuole passare qualche ora in buona compagnia.