Onlus, migranti “divorati”, raggiri. Il Gip: «Trattamento disumano»

Milioni di euro ritenuti frutto di «artifizi e raggiri» emersi «con evidenza». E un «trattamento disumano degli immigrati» che «non richiede ulteriori commenti». È in questi pochi passaggi dell’ordinanza d’arresto, a firma del giudice per le indagini preliminari Laura Matilde Campoli, che è racchiuso il fulcro dello scandalo che con sei arresti ha travolto alcune delle cooperative pontine da tempo attive nell’ambito dell’accoglienza dei migranti. In particolare La Ginestra e l’Azalea, con base a Fondi e attive anche a Monte San Biagio e Lenola, la prima “storica”, l’altra sorta un paio di anni fa sulla scia di un business allargatosi a macchia d’olio.

Due onlus solo sulla carta, secondo le risultanze investigative. In realtà per gli inquirenti non soltanto erano aziende a tutti gli effetti, ma erano oltretutto al centro di un vorticoso giro di affari che ha portato a un ingiusto, lauto profitto nel segno della truffa allo Stato, tra spese gonfiate e fondi distratti per fini personali. Per La Ginestra – appena esclusa dal nuovo bando per l’accoglienza, caso pendente davanti il Tar – ci sarebbero stati super affitti “regalati” ai familiari e un super stipendio al presidente, nonché spese di pulizia da capogiro pagate a un’altra coop “di casa”, la LuDa. Mentre il presidente dell’Azalea, ad esempio, con i soldi presi direttamente dal conto dell’onlus presieduta avrebbe pagato il banchetto per battesimo del figlio. La motivazione formale? Un «evento di beneficenza», recitava la fattura. Le contestazioni parlano di somme illecitamente percepite pari alla bellezza di 4 milioni 114mila euro circa per La Ginestra, elargite a partire dal gennaio 2015, e a 630mila euro circa per l’Azalea, a partite dall’agosto del 2016.


Il tutto approfittandosene in maniera conscia di un’emergenza umanitaria, dicono gli inquirenti. Stando ai riscontri investigativi gli extracomunitari africani e asiatici dati in carico dalla Prefettura erano ammassati a più non posso in centri troppo piccoli e inadeguati. Sia dal punto di vista della sicurezza antincendio – con tanto di vie di fuga ostruite dai letti e impianti elettrici con gravi carenze di manutenzione -, che da quello igienico-sanitario. In alcuni casi, da mangiare avrebbero ricevuto cibo scaduto o avariato. A volte, dicono gli inquirenti, non avevano acqua calda per lavarsi o bagni fruibili. Negli atti a carico dell’Azalea, c’è pure un episodio che vide richiedenti asilo riferire di essere stati minacciati con lo spauracchio del rimpatrio: fossero continuate le lamentele legate alle loro condizioni, confidarono alla polizia, a detta dei vertici avrebbero dovuto dire addio alla procedura d’accoglienza. Un insieme di variegate accuse in cui la posizione urbanistica a dir poco traballante di alcune delle strutture finite nel mirino (ce n’era almeno una a quanto pare ospitata in un manufatto abusivo), non può che essere un’appendice.

Strutture destinate dalle due cooperative in questione a Centri di accoglienza straordinaria. Dei Cas in capo ad onlus che nel nome della solidarietà avrebbero creato, ognuna a suo modo, un vero sistema. Collaudato e che non si faceva troppi scrupoli, dicono gli inquirenti. Soggetti con «un’indole criminale», ha messo nero su bianco il gip Campoli per giustificare le esigenze cautelari a carico dei principali indagati, i presidenti delle associazioni. Parole come macigni, a convenire passaggio dopo passaggio con il quadro indiziario ricostruito dagli agenti della Questura di Latina e dal pubblico ministero Giuseppe Miliano. E certo non è casuale, alla luce del quadro accusatorio, il nome con cui è stata battezzata l’inchiesta. Prendendo spunto dai nominativi floreali delle onlus coinvolte, ecco lentamente germogliare l’operazione “Dionea”. In omaggio a una pianta carnivora.

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